Non è lontano il tempo in cui le township che cercavano di praticare l’integrazione venivano rase al suolo. Ora è rimasto un buco nella città: aree non più ricostruite hanno sostituito case, negozi, bar, che una volta erano lì, ingombrante e pericoloso tentativo di liquidazione “informale” dell’apartheid. Però le township non sono morte. Ancora divise in zone in base alle diverse nazionalità degli abitanti, questi insediamenti sono triste testimonianza di quanto non più la razza, ma il denaro, continui a tenere emarginati gli ultimi.
Ma questi quartieri non sono solo povertà lontano dalla scintillante Città del Capo, sono anche il luogo che in tanti chiamano “casa”. La partecipazione del tutto fortuita ad una festa di compleanno dove l’allegria e la birra rendevano tutto, compreso l’identità di genere, un po’ confuso, ci ha fatto capire che, a loro modo, questi quartieri vanno al di là della disperata povertà che li opprime. Sono un’ulteriore, ed in parte riuscito, tentativo di dare un significato alla parola “comunità”.